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Il Museo etnoantropologico "Vito Gandolfo"

Il Museo Etno-antropologico della terra di Zabut - antico nome arabo di Sambuca - fu fondato negli anni '80 dal veterinario dott. Vito Gandolfo, personalità molto attiva nello sviluppo culturale del borgo e nella salvaguardia e promozione delle sue tradizioni identitarie. Fu una delle anime del giornale “La Voce di Sambuca”, fondatore della Biblioteca Comunale che diresse per 12 anni, della Pro loco “Adragna-Carboj” di cui fu presidente per 22 anni, ed Ispettore onorario della Soprintendenza dei BB.CC.AA. di Agrigento per l'archeologia preistorica per il territorio di Sambuca di Sicilia.

Il luogo del racconto della cultura contadina sambucese in due allestimenti

Il Museo, inaugurato nel marzo del 1985, testimonia l’antica tradizione della cultura contadina sambucese, da sempre vocata all’agricoltura e alla pastorizia, ed illustra in modo particolare i cicli produttivi della vita agro-pastorale del frumento e del latte attraverso due allestimenti distinti, realizzati in due fabbricati vicini. Il primo allestimento, realizzato nel primo fabbricato musealizzato presso il Cortile Ferrante, illustra il ciclo della coltivazione, che va dalla spietratura del terreno fino ai prodotti finiti, la pasta e il pane, attraverso le loro varie fasi. Qui si possono osservare attrezzi come l’aratro, la falciatrice, la zappa: oggetti che oggi le giovani generazioni sconoscono. Il secondo allestimento, realizzato nel secondo fabbricato musealizzato in Via Panitteri, è adibito al ciclo della pastorizia. Vi sono esposti tutti gli strumenti che gli antichi pastori usavano per trasformare il latte in ricotta e formaggio: una vera miniera di reperti sia per le scuole che per i ricercatori che vogliono comprendere le tradizioni, gli usi e i costumi sambucesi.

Il primo allestimento: il racconto del pane tra latifondi e classi sociali

Questa prima sezione dell’allestimento racconta la produzione del frumento che segnò profondamente la vita della maggioranza della popolazione sambucese fino agli anni ’50. Qui i lavoratori della terra, i “braccianti”, erano molto poveri: il loro unico vero bene erano le braccia per lavorare; vivevano in misere abitazioni, spesso in coabitazione con gli animali domestici. Chi disponeva di galline, una capra e un mulo si distingueva già per un certo benessere; chi riusciva a possedere anche un appezzamento di terreno era definito contadino. Il latifondo o feudo (fèu) esprimeva anche una realtà sociale, culturale ed economica precisa. C’erano i proprietari terrieri, che in genere abitavano in città e davano in affitto il feudo al gabellato; i gabellòti che, a loro volta, con un’intermediazione parassitaria, concedevano ai braccianti un appezzamento di terreno seminativo di quel feudo in gabella; ed i braccianti che, con il sistema dell’affitto a gabella, pagavano una quota fissa di frumento al momento del raccolto; inoltre, tutti i mezzi di produzione, le sementi e i rischi di una cattiva stagione erano a carico dell'affittuario che doveva, in aggiunta, versare una certa quantità di paglia, trebbiare il frumento nell'aia del proprietario e macinarlo nel suo mulino; inoltre, poteva detrarre la sua parte del raccolto solo dopo aver soddisfatto il debito con il padrone: ai braccianti restava, dunque, una quantità di frumento insufficiente a sfamare la famiglia in inverno. Nel caso di concessione a mezzadria (mizzatrìa), il raccolto veniva invece diviso a metà, ma il bracciante doveva prima adempiere a degli obblighi: il gabellato anticipava il frumento per la semina che recuperava poi dall'aia, con un forte incremento, mentre il bracciante, oltre a mettere le sue braccia e l’aratro, doveva anche versare, della sua parte di raccolto, una certa quantità di frumento al campiere (il custode di fiducia a servizio del gabellato) ed una anche al gestore dell'aia dove il prodotto veniva trebbiato.

Il ciclo di produzione del frumento. Il pane e la pasta

La coltivazione del frumento era a carattere estensivo. Le grandi estensioni di terreno (dette latifondi, privi di case, acqua e alberi) venivano divise in tre parti: la prima lasciata a pascolo, la seconda coltivata a fave, la terza a frumento. Ogni tre anni, avveniva la rotazione delle colture. Il ciclo di produzione del frumento occupava l'intero anno solare ed era composto da alcune fasi principali: l’aratura (settembre-ottobre), la semina (novembre-dicembre), la sarchiatura (marzo-aprile), la mietitura (giugno) e la trebbiatura (luglio). A settembre iniziava l’aratura dei campi per preparare il terreno alla semina. Partendo da un angolo dell'appezzamento di terra, si solcava il terreno con l'aratro a chiodo (chiòvu) - un arnese in legno col vomere in ferro, trascinato da una coppia di buoi (aràtu a dui) - a Sambuca prevalentemente si usavano i muli - tenuti assieme dal giogo (juvu): una trave in legno sagomata, poggiata sul dorso dei due animali e collegata all’aratro con un'altra trave in legno (la percia). Particolari selle (siddunèdda) consentivano di non logorare la pelle degli animali. Per condurre i muli o i buoi guidandoli nell'andatura e nella direzione voluta, il bracciante o contadino si serviva di due corde, ciascuna legata da un lato al capestro (capizzòne) di uno degli animali e dall'altro all'impugnatura (manùzza) dell'aratro. L’aratura “a dui” richiedeva una collaborazione tra i lavoratori della terra, che si prestavano a vicenda l'animale da tiro. In alternativa, si usava l'aratro a forbice (aràtu a scocca), interamente in ferro, cui era aggiogato l'animale. La realizzazione dei solchi nell’aratura serviva a sciaccàri (dissodare) lo strato superficiale del terreno, ponendolo a diretto contatto con i raggi solari, il vento e la pioggia, che decomponevano le stoppie, aumentando la fertilità del suolo. Dopo le prime piogge autunnali, il terreno veniva arato una seconda volta (rifùnniri). A fine novembre si svolgeva la semina del frumento duro (russellu o capitu). Se le piogge autunnali erano abbondanti e occorreva attendere qualche settimana per il miglioramento delle condizioni del terreno, si seminava invece la tumminìa: un tipo di frumento tenero, che richiedeva un ciclo più breve. Il frumento da seminare (semente o semenza) veniva selezionato e ripulito, disinfettato col solfato di rame (cilestra) per combattere un fungo nero (mascaredda), che si annidava nelle spighe appena nate, polverizzandole. La semina del frumento veniva fatta a solco (sulicu) - quando il seminatore gettava il frumento lungo il solco aperto dall'aratro e l’aratore tornava a richiudere il solco già seminato - oppure a pioggia (broscia) o a spaglio (spaglio) - quando il seminatore camminava lungo i solchi con una coffa (un rozzo contenitore realizzato in fibra vegetale) contenente la semente e, con un largo movimento ad arco del braccio, spagliava i semi, spargendoli in una striscia di terreno arato, ben delimitata da canne allineate. Dietro di lui, l'aratore chiudeva i solchi appena seminati mentre un altro bracciante, con la zappa (zappùni), ricopriva di terra i chicchi rimasti scoperti. In inverno si svolgeva la sarchiatura o zappettatura: con una piccola zappa (zappudda) si facevano tre interventi di pulitura del terreno, estirpando le erbe infestanti e selezionando le spighe, da cui si scartavano le spurie (fra cui l'oglio che rendeva la farina velenosa). Nel mese di giugno si svolgeva la mietitura del frumento duro (russello o capito). Il frumento tenero (tumminìa) si mieteva anche a luglio. I mietitori (li metitùra) si ritrovavano nei campi all'alba e, organizzati in squadra (chiurma), si disponevano ad antu, procedendo dal basso dell'appezzamento del terreno controvento (in senso opposto all'incurvatura dei gambi delle spighe). Usavano una falce (fàuci) a lama dentata con il manico di legno, un pettorale (falàri) di alona per proteggersi da eventuali tagli, un manicotto (mànica) di alona posto sul braccio e ditali di canne (cannèddi) a protezione delle dita. Ogni mietitore, con la mano sinistra, afferrava un pugno di spighe per il gambo e lo segava con la falce (fàuci), che teneva nella mano destra. Ogni piccolo fascio di spighe, annodato con una spiga, veniva deposto a terra; qui un altro mietitore vi posava un altro piccolo fascio capovolto, in modo da formare un mazzo (ermìta). I piccoli fasci, raccolti a 10 a 10 con uno speciale uncino in ferro (ancinèddu) dal legatore (liatùri) che seguiva i mietitori posti contro una forcina di legno (ancìna), sistemati su un legaccio (liàma) già disteso per terra e annodati (‘nfasciàti) per formare un covone (gregna). I covoni realizzati durante la giornata di lavoro venivano accantonati (‘ncavaddàvanu) e, dopo una settimana di stagionatura, venivano trasportati (stravuliàti) a dorso dei muli nell'aia (aria): una parte di terreno di forma circolare, pulita, bagnata e coperta di paglia, esposta al vento di tramontana, preparata per la trebbiatura. All'interno dell'aia, di prima mattina, venivano sparsi i covoni sfasciati. Nella tarda mattinata, quando il sole aveva asciugato le spighe sparse, rivoltate più volte con un tridente di legno (tradènta), si cominciava a battere (cacciàri) la superficie dell'aia: guidati dal contadino, coppie di muli affiancati giravano in senso rotatorio, calpestando con gli zoccoli le spighe che altri lavoratori rivoltavano con il tridente (tradènte) per separarare i chicchi di frumento dalle spighe. Dopo due ore di battitura, agli animali veniva dato da mangiare e da bere e consentito un po’ di riposo, mentre i lavoratori rivoltavano le spighe (vutàri l’aria). Poi si ricominciavano le battiture (cacciate). Seguiva, poi, la spagliata - con il tridente si lanciava il miscuglio di frumento e paglia, perchè il vento allontanasse la paglia dall'aia - ed altre operazioni di pulitura (annittàri). Con una pala di legno (paliàva) si selezionava il frumento, scartando le spighe più grosse non ancora sgusciate (pisatìna), e si procedeva con la crivellatura (cirnitùra) del frumento per pulirlo dalle impurità: il lavoratore, raccolto il frumento da terra in un contenitore (coffa) posto sulla testa, lo versava a pioggia nel crivello (crivu passatùri) a maglie strette, sospeso con una corda alla cima di un treppiede, formato da tre lunghi pezzi di ferula (ferla) per ottenere ancora una spagliata che separava il frumento dalle ultime impurità. Il raccolto, diviso secondo le condizioni stabilite nel contratto di affitto, veniva portato in magazzino in sacchi di alona, mentre la paglia, residuo della lavorazione, veniva trasportata nei magazzini (paglialòra) in contenitori in corda (ritùna) collocati sul basto dei muli. Il frumento veniva conservato in grossi recipienti di canne intrecciate a forma cilindrica (cannìzzi) e molito (macinàtu) poco per volta, tenendo conto del consumo di farina della famiglia. A Sambuca la panificazione domestica, fino agli anni ‘50, fu molto diffusa: la donna faceva il pane in casa una volta alla settimana per tutta la famiglia. La massaia, estratta la farina dal sacco di alona, la misurava con il munnèddu o la quartiglia (oggetti cilindrici in legno) e la deponeva sullo scanatùri (un ripiano quadrato in legno di faggio levigato) o, se la quantità era considerevole, sulla madia (sbria): ripiano in legno con i bordi laterali. La farina veniva disposta a mucchio sullo scanatùri: creato al centro un piccolo cratere (conca), la massaia vi versava acqua calda, sale e lievito (criscènti): un pezzetto di impasto crudo già fermentato, conservato dall'ultima panificazione in una tazza di terracotta per essere usato come lievito successivamente. Poi, impastava a mani nude finché tutta la farina fosse assorbita. Se l'impasto era molto, usava lo sbriùni: un grosso bastone per mescolare la farina e gli ingredienti i posti sulla madia (sbria). Il composto, amalgamato, assodato e inumidito con l'olio, veniva tagliava a pezzi di circa un chilogrammo, ciascuno modellato col palmo della mano per dargli le forme del pane(‘npanatu), pressato su strati di sesamo (giuggiulèna) avvolto con panni di lana per tenerlo al caldo e accelerarne la lievitazione e sistemato sui ripiani (mittìa lu pani a lu lettu). Quando l'impasto cominciava a screpolare e la lievitazione era completata, i pani venivano introdotti nel forno a legna, che nel frattempo era stato camiàtu. Per i vari tipi di pasta si usava invece un impasto di farina, acqua e sale, senza lievito che, una volta amalgamato, veniva spianato sullo scanatùri con il mattarello (sagnatùri), tagliato a strisce sottili (tagliarìni) o introdotto nel torchio (manganèddu), dove si usava il disco (piattu di manganèddu) per fare i vari tipi di pasta secondo il formato desiderato.

La produzione di latte, ricotta e formaggio e… di lana

La produzione del latte ovino e vaccino nel territorio sambucese, fino agli anni ’50, era molto diffusa. Gli allevamenti di pecore e vacche nelle distese del feudo (feu) erano connessi alla rotazione triennale della cultura del frumento. I pastori (picuràra) conducevano una vita molto dura: per pochi soldi erano costretti a vivere fra gli animali e a dormire con essi, all'addiaccio, raggiungendo le famiglie in paese ogni 15-30 giorni, per la giornata libera (vicènna). Erano assunti dai proprietari ad anno (annalòra) o a mese (misalòra) ed il conguaglio del loro salario annuale veniva pagato il 31 agosto, parte in prodotti della terra, formaggi e frumento. Il lavoratore (annalòro) aveva diritto a tenere nella masseria (massarìa) del padrone un piccolo gregge (strippùni) di ovini, in cambio di una parte del latte prodotto. In base all'età e alle mansioni svolte, i pastori della masseria avevano diverse qualifiche (vaccàro, vitiddàru, strippàru, agniddàru e curàtulu) per cui ricevevano un salario differente. Il pastore più esperto della masseria curava, in particolare, la caseificazione e la tosatura. Il pascolo degli ovini e dei bovini (c'era anche qualche gregge di caprini) era praticato su appositi terreni del feudo, durante tutto l'anno. La sera gli animali - soprattutto le pecore - venivano condotti nell'ovile (mànnira) per la mungitura e la custodia. L'ovile era cinto da muri di pietra, in blocchi sovrapposti, o da pali di legno (palacciùna) piantati a terra, collegati tra loro con filo di ferro (ferru filàtu), a cui venivano intrecciati i rami secchi di arbusti spinosi, per realizzare un vero e proprio steccato. L’ovile era diviso in due spazi: in uno era praticato un foro di attraversamento (vadìle) utilizzato per la mungitura. Nella zona vicino all'ovile erano costruiti vani rustici con il tetto di canne intrecciate o di tavole, dove venivano riposti gli attrezzi e si producevano i formaggi. La mungitura era praticata due volte al giorno: la mattina, prima di condurre gli animali al pascolo, e la sera, al rientro nell'ovile. Il pastore (picuràru) si sedeva su un ceppo di legno (firlìzza) o di pietra, disponeva un secchio di legno (scisca) per terra sotto le mammelle dell'animale e iniziava a mungere, aiutato da un ragazzo o da una donna. Ad una ad una, le pecore entravano nel vadìle (l’apertura accanto alla quale sedeva il pastore) per metà, in modo che, lasciate fuori le zampe posteriori e le mammelle, il pastore potesse procedere alla mungitura. Poi, gli animali si raccoglievano nel secondo recinto dell'ovile. Verso la fine di maggio e i primi di giugno si svolgeva la tosatura (tunnitùra), cui partecipavano i pastori, ma anche i contadini del feudo. Dall'alba al tramonto, tra il belare delle pecore e il continuo battere delle cesoie (fòrfici pi’ tùnniri), i tosatori tosavano dalla testa alla coda le pecore, legate per le zampe e rivoltate in mille modi per poter tagliare tutta la lana che, compatta, ne ricopriva il corpo.

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